Music dot Fran: We are Scientists

ph. Franfiorini

C’è un social network abbastanza simpatico che si chiama Last.fm. Da lì viene registrata un po’ tutta la mia musica che ascolto quando sono al computer e a volte ricontrollo cosa ho ascoltato negli anni e le vere e proprie cotte per alcune canzoni. Una di queste folgorazioni fu per una canzone che si chiama “Nobody Move, Nobody Get Hurt”. Era circa l’inizio del 2006, e avevo in mente proprio come se fosse un virus quella cantilena “I’m probably gonna explo-oh-oh-oh-oooh Woah-oh-oh-oh-ooh”.

Sono quei momenti poco decorosi ma comuni nella vita di noi fruitori di musica. Anche perché diciamo che il testo non è questa grande menata filosofica, traducendolo in modo non fedelissimo esce come la storia del toy boy che ti dice guarda che se mi lasci ci resto male dibbrutto e quindi prendimi e spupazzami qui, hic et nunc come si diceva. Non che sia un problema, è pop. Un pezzo pop.

Il fatto è che forse grazie anche a questo singolo With Love and Squalor, che era il loro album di debutto, vende centomila copie in sei mesi. E li fa uscire dalla California, dove loro hanno iniziato a far musica seriamente solo dopo l’università (sono ragazzi del 1977, Chris e Keith). Infatti il nucleo iniziale dei We are scientist era formato da due componenti della band provenienti da letteratura inglese, Keith Murray e Chris Cain, al Pomona College e Michael Tapper era al Harvey Mudd College, distante di pochi chilometri. Si incontrarono e formarono il trio al al Claremont Colleges, e da lì iniziarono a girare per i college. Se pensate che poi nel 2006 arrivano nel Regno unito e vengono presi sotto l’ala protettiva della rivista NME, una sorta di riferimento musicale d’oltremanica, che li lancia definitivamente, non faticherete a capire come sono arrivati in altri due anni a fare i supporter agli R.E.M, scelti personalmente da Michael Stipe.

Nel giugno di quest’anno è uscito il loro terzo disco, Barbara, che li ha portati in tour per tutto il nord europa per tutta l’estate e anche adesso. Album particolare, perché il primo dopo il cambio di formazione: i We are scientist hanno perso alla batteria Tapper, hanno acquistato un altro elemento proveniente da un altro gruppo, Andy Burrows, e un batterista solo per i live. Ma in questo modo vi anticipo l’intervista che ho fatto il secondo dei tre giorni al Frequency Festival proprio al bassista del gruppo.

Quando mi trovo Chris Cain ciabattare per la sala stampa, con birra in una mano e sguardo random in giro mi fiondo subito verso di lui con uno scatto degno delle vecchiette pronte in chiesa al momento della comunione. Il coraggio del secondo giorno e del “ok, non lo rivedrò mai più: cosa ho da perdere?”.

Per Chris dovremmo ritirare fuori l’aggettivo guascone, visto che in alcuni momenti partiva per la tangente mentre parlava durante l’intervista e diceva cose in contraddizione per vedere la mia faccia. Che infatti un paio di volte deve essersi corrugata in modo smarrito, e lui ridacchiava. Sornione. Ed è un conversatore abile e che ti mette a proprio agio, sebbene all’inizio essendo entrambi timidi che mascherano molto bene facciamo fatica a capire chi di noi due debba prendere l’iniziativa per capire dove sederci nel marasma della sala stampa. Gli indico una sorta di divano plasticoso e lui annuisce e nel tragitto gli dico “sai che l’ultima volta vi ho visti a suonare a Bologna con gli R.E.M.? E lì siete piaciuti tantissimo a mia madre, che ha iniziato ad ascoltarvi dal giorno dopo” e lui mi risponde, con voce baritonale “è sempre importante piacere a una madre. E a te piacciamo?” Lì mi viene in mente la regola del non sbragarsi completamente con chi hai davanti, e mi ripeto tipo di avere un contegno: “Oh beh, vi ho ascoltato spesso, sì” Certo. Tipo 240 volte in una settimana, una volta. Ma dettagli.

 

Qual è il numero perfetto per essere in un gruppo? Si è iniziato con tre persone e ora siete… due?

“Beh, è stato qualcosa di liberatorio, credo. Penso che suonare in tre sia il numero perfetto dal vivo, Per quanto riguarda la composizione di un gruppo credo che due sia un numero grande ma in uno si è troppo pochi, sai, perché è difficile prendere decisioni per tutto il tempo, è difficile essere solo l’unica persona con qualsiasi autorità. Mi piace essere in una band con qualcun altro verso cui ho davvero fiducia in quello che fa e che pensa. Sicuramente è molto più facile avere qualcun altro su cui contare e non essere un one man army.”

Come è per te, per la vostra band suonare ai festival. Ti piace più esibirti nei piccoli locali o ai grandi festival?

“Sono entrambi divertenti! Penso che l’ideale è essere in grado di fare entrambe le cose, e noi siamo molto felici di farle. Credo che suonare di fronte a un’ampia platea ti dia anche una sorta di riconoscimento, ma, insomma, alcune cose a un festival non sono così buone come sai, il suono è sempre un po’ brutto,  il sound check sul palco è piuttosto impreciso mentre al chiuso il suono tende ad essere più controllato, ed è meglio per una questione di fedeltà,  mentre si dovrebbero mettere dei limiti al volume in festival, cose del genere. Dall’altra parte invece  c’è sempre gente che è ubriaca e che si diverte un casino, trasmettendoci energia. Certo, sono due cose contrapposte anche se pensate che il pubblico in un club potrebbe essere lo stesso divertente e lo show buono, ma… non c’è niente di più divertente a un festival del festival stesso. Anche per la gente.”

Il vostro ultimo disco si intitola “Barbara,” come è stata la collaborazione con Andy Burrows?

“Sì… è stato grande. Penso che sia probabilmente il miglior… anzi, sicuramente il miglior giovane batterista rock al mondo. Voglio dire, lui è davvero mostruoso tecnicamente quando suona… insomma, si può fare con lui qualsiasi cosa, ma anche quando passi a livello compositivo è  davvero  molto, molto capace, quando scrive parti di batteria. Lui è molto interessato al processo compositivo e si mette servizio della canzone stessa per renderla nel miglior modo possibile, e non solo focalizzandosi sulla parte del suo strumento. Perché una cosa che di solito fanno i grandi batteristi è che si sentono costretti a trasmettere subito le emozioni, cercando di sottolinearle con un forte uso del loro strumento e che è una caratteristica che regala il meglio alla canzone. Quindi se pensi c’è la contrapposizione tra quei gruppi con musicisti incredibili e quegli altri gruppi che magari sono un sacco divertenti da vedere e che su CD magari suonano bene, ma le canzoni non sono così naturali e dirette, ma sono tutte suonate giuste e cool ma sai, per me la realizzazione più giusta è quella tipo del Jazz: perché il Jazz è più focalizzato sulla realizzazione a partire dallo strumento. Invece per il pop non va così, è tutto registrato, preparato, ma ecco sappiamo benissimo che la finalità del pop è il valore della canzone come il valore dell’intrattenimento, no?”


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