Potrei farvi un discorso che va a dire che ci sono luoghi nei quali c’è così tanta magia della musica che è proprio il posto che rende già tutto così suggestivo e che basta poco per elevarlo ancora di più. Parliamo della cornice dell’Arena di Verona. A memoria non c’è un concerto brutto lì. Saranno gli anni di lirica suonata, sarà che la gente si raccoglie tutta quasi come se fosse una funzione religiosa in alcuni momenti.
Poi parliamo di Peter Gabriel. Quello che negli anni fisicamente si è così ridotto da sembrare una copia grossa di Giorgio Faletti. Un artista generoso. Uno che si merita l’appellativo di artista e non solo di musicista: infatti dopo aver raggiunto il successo nel celebre gruppo dei Genesis come vocalist, flautista e percussionista, ha intrapreso la carriera solista. Recentemente è stato impegnato nella produzione e promozione della world music e nello studio di nuovi metodi di distribuzione della musica online. È anche noto per il suo costante impegno umanitario.
Fondiamo gli elementi e abbiamo uno spettacolo mozzafiato: una grande orchestra, due coriste di livello, un grande artista in un gioiello architettonico. Per i veri fan, magari derivati e vedove dei Genesis, deve essere qualcosa di assoluto. Peter Gabriel come altri che hanno fatto un album coraggioso e sperimentale nella sua intrinseca classicità (mi viene in mente lastessa struttura di concerto fatta da Rufus Wainwright: il suo concerto per il tour di Songs for Lulu al conservatorio di Milano si era diviso in una prima parte solenne, in cui nessuno doveva applaudire su sua espressa richiesta, e che ha fatto rischiare alla sottoscritta che lo ama tantissimo più volte l’abbiocco. Con poi invece una seconda parte gaia e gioiosa) divide lo show in due parti: la prima è tutta su Scratch My Back è l’ottavo album registrato in studio. Un album di cover. Un album un po’ difficile all’ascolto, anche se con degli spunti notevoli.
Da classicista per lavoro non posso non citarvi gli arrangiamenti orchestrali di una perfezione quasi cristallina. Da ragazza del 1983 cresciuta con i Radiohead durante l’adolescenza posso solo dirvi che alcune cover, pur ammirandolo tantissimo, fanno male confontate con l’originale. Alcune, migliorano, come ad esempio Heroes di Bowie dal vivo prende ed essendo completamente diversa sul piano ritmico piace.
La prima parte quindi forse è provante. Specie per i fan, che applaudono così, in modo random, non conoscendo forse bene l’ultimo album. O forse perché sono trascinati dall’ensamble che suona sul palco: 44 elementi diretti da Ben Foster, giovane e dinamico direttore d’orchestra bravissimo, e due coriste Melanie Gabriel e la norvegese Ane Brun che apre anche il concerto con due canzoni acustiche presentata dallo stesso Gabriel.
La voce di Peter Gabriel era provata da giorni di raffreddamenti. Non riesce quindi a dare il meglio fino alla prima mezz’ora di cantato. Poi appena parte la cover dei celebratissimi ormai Arcade Fire con My body is a cage Peter si scalda e fa sentire che sì, è ancora lui. Non è un vecchietto in paltot messo sul palco per caso. Lo spettacolo rimane fortemente teatrale pur non essendolo: ma non è un’autocelebrazione funerea.
Luci calde, colori seguono i suoni. L’orchestra tampona dove ci sono piccole mancanze di voce. Il concerto va verso la pausa di 15 minuti regalandoci prima una piccola chicca rispetto alle altre date già fatte: Wallflower, una splendida canzone dal quarto album dove si mischiano brividi a commozione visto che è uno struggente inno alla libertà.
La seconda parte, quella con i successi del passato, è più dinamica ed è sempre impreziosita dalla scenografia con i led, e con Gabriel che illumina con uno specchietto la folla. E con anche altri accorgimenti visivi, come ad esempio il trasformare un po’ lo stage in una zona africana (difficile, vista la temperatura dell’aria) con The Rhythm of the Heat. Ma la sua voce e l’orchestra riescono a trascinarci lì. Fino a congedarci, dopo l’encore, al piano. In modo quasi intimo.
Non mancano i momenti di impegno civile mentre ci parla, in modo un po’ confuso in realtà basandosi sui suoi foglietti, sull’energia solare e il suo utilizzo in un paese dei Pirenei con un accrocchio di specchietti. E poi le introduzioni alle canzoni, dopo quella iniziale, con la sua voce profonda regalano suggestioni aggiunte alle canzoni, come l’introduzione di Darkness in italiano: «È la storia di una donna che vive in una roulotte nel bosco, dicono sia una strega, parla di paura…»
Vi siete persi un grande spettacolo. Ma forse proprio questo spettacolo diverrà un dvd. Non perdetelo.
Scritto da frannina
il 30/09/2010