Al MAN di Nuoro le provocazioni visive di Thomas Hirschhorn

Con 3 “Easycollage” and 6 “Collage-Truth”, Thomas Hirschhorn trasforma la “project room” del Museo MAN in un ambiente provocatorio, carico di suggestioni e di contrasti visivi. Il progetto, a cura di Lorenzo Giusti, propone una serie di lavori di grandi dimensioni, più altri di più piccolo formato, realizzati tra il 2012 e il 2015, in cui servizi fotografici di moda convivono con immagini di guerra.

Il senso di straniamento e di repulsione provocato dalla visione dei collage è l’arma con cui Hirschhorn conduce la propria battaglia contro una relazione semplificata con l’immagine e contro la tendenza della fotografia massmediatica a concentrarsi su aspetti parziali della realtà, che proprio la fotografia avrebbe la pretesa di catturare, rimuovendone le sfumature.

L’imposizione alla vista di corpi dilaniati dalla guerra e contestualmente di corpi idealizzati dal marketing pubblicitario,accostamenti apparentemente contrari a ogni logica di senso ed estetica, costituisce una strategia consapevole, orientata all’inversione delprocesso di assuefazione/ipersensibilizzazione indotto dai media.

I lavori di Thomas Hirschhorn intendono stimolare il pubblico a prendere consapevolezza del proprio bagaglio visivo, a fare i conti con la propria sensibilità, e ad avvertire la necessità di un pensiero critico elaborato rispetto al mondo dei media e, più in generale, rispetto alla realtà geopolitica e alle condizioni sociali della contemporaneità.

Il progetto 3 “Easycollage” and 6 “Collage-Truth” sviluppa il percorso di indagine sul collage come strumento di analisi critica portato avanti da Hirschhorn nel corso degli ultimi anni. Una ricerca a cui l’artista affianca sia lavori site specific, che rispondono a una precisavolontà di analisi critica della società (ambienti realizzati perlopiù con materiali poveri e oggetti d’uso comune), sia operazioni partecipative, che prevedono un coinvolgimento diretto del pubblico, come nel caso dei progetti della serie “Presence and Production”, come “Deleuze Monument” (Avignone, 2000), “Bataille Monument” (Kassel, 2002), “24h Foucault” (Parigi, 2004), “The Bijlmer Spinoza-Festival” (Amsterdam, 2009), “Gramsci Monument” (New York, 2013) e “Flamme éternelle” (Parigi, 2014).

Thomas Hirschhorn (Berna, 1957), si trasferisce a Parigi nel 1983 dopo gli studi alla Schule für Gestaltung di Zurigo. Ha presentato i propri lavori in numerosi musei, gallerie e manifestazioni internazionali, fra cui la Biennale di Venezia (1999 e 2015), Documenta 11 (2002), La 27a Biennale di San Paolo (2006), la 55a edizione del Carnegie International di Pittsburg (2008), il Padiglione Svizzero alla Biennale di Venezia del 2011, La Triennale al Palais de Tokyo di Parigi (2012), la 9a Biennale di Shanghai (2012), la Gladstone Gallery New York (2012), Manifesta 10 a San Pietroburgo (2014). Il suo lavoro più recente, “Flamme éternelle”, parte del progetto “Presence and Production”, è stato presentato nel 2014 al Palais de Tokyo. MIT Press-October Books ha pubblicato una selezione dei suoi scritti critici (Critical Laboratory: The Writings of Thomas Hirschhorn, 2013). Ancora più recente è l’uscita del libro dedicato al “Gramsci Monument” (edito nel 2015 da Dia Foundation e Koenig Books), progetto che l’artista ha sviluppato nel Bronx di New York nel 2013. Numerosi i premi ricevuti: “Preis für Junge Schweizer Kunst” (1999), “Prix Marcel Duchamp” (2000), “Rolandpreis für Kunst im öffentlichen Raum” (2003), “Joseph Beuys-Preis” (2004) and the “Kurt Schwitters-Preis” (2011).

Museo MAN
via S. Satta 27- 08100, Nuoro
tel. +39 0784 25 21 10
orari: 10-13 | 15-19 lunedì chiuso
www.museoman.it

Ulisse è tornato (no, non nel senso da Penelope)

Fortunatamente pare che Giacobbo spadroneggi solo d’estate. Il resto dell’anno ritorna la famiglia Angela (Superquark confinato alla stessa estate è troppo poco), e finalmente si capisce perché uno paga il canone. Rai5 canale della cultura? meno male che rai3 invece fa qualcosa di buono, ben scritto, ben spiegato. Non si chiede molto: guardate come rai5 è infarcita di programmi della BBC tradotti (poi: perché tradotti? non sarebbe ora che anche noi italiani si impari coi programmi sottotitolati? Lo so: o leggi o segui. Ma qualcosa si impara) senza magari far produrre qualcosa di buono dagli italiani. Non so, non mi occupo di questo: ma magari non è che ci costa anche meno?

In tutto questo si parlava di tutela del nostro patrimonio artistico: bello sapere il pomeriggio prima che il governo stia incentivando il settore nautico ma s’impipa della cultura. Chissenefrega eh: mica siamo quelli il cui patrimonio artistico è all’angolo di ogni strada, no? Io vi ricordo che la Svezia da anche i soldi a chi fa musica e ai posti dove si fa musica. Per dire.

Stazzema, Sant'Anna.

sant'anna di stazzemaEra il periodo dove rompevano i coglioni con la storia che c’era una storiografia di sinistra che ti veniva imposta a scuola. Sì, si notava che la mia prof di Storia e Filosofia non era poi così allineata a un governo di centrodestra, ma non mi sembrava così comunista. Non per davvero. Si parlò tanto dei Nazisti, ma si parlò poco e male della Resistenza in Italia. Ho conosciuto tanto della Resistenza da quando sono a Parma. Mi piace, mi affascina, sono grata di aver mosso il culo ed essere venuta in questa zona: per la sua storia.

Quando passavo sull’A12 però vidi i primi tempi i cartelli con una figura stilizzata, con scritto Sant’Anna di Stazzema. Mi chiesi spesso perché, cosa c’entrasse, quello scritto piccolo vicino c’era -con vergogna quasi- la strage. Chi, come, cosa? Non c’era ancora la internet sul telefonino. Ora avrei trovato agevolmente questo. O mi sarei soffermata su wikipedia. All’epoca no. Non ricordo neppure se avessi il modem adsl.

Cercai su internet, e mi ricordo che trovai questa frase di Toaff:

«Su Sant’Anna era calato subito un silenzio impalpabile, una rimozione di quell’orribile mattina – aggiunge Toaff -. Per tanti anni mi sono chiesto perché. E ho cercato di dare un senso a tutta quella ferocia che mi venne incontro in quel caldo mattino d’estate. La prima casa che trovammo era alla Vaccareccia: fumava ancora. Dentro c’erano i corpi di un centinaio di persone, in maggioranza donne e bambini. Le Ss, quattro colonne da 100 uomini ciascuna di quella stessa XVI divisione che ha agito poi a Marzabotto, li avevano chiusi lì dentro, poi avevano dato fuoco alla paglia e avevano gettato dentro delle bombe. Vedemmo un ammasso irriconoscibile. Più avanti c’era un’altra casa, con la porta spalancata. Entrai e ho ancora difficoltà a raccontare… C’era una donna, seduta di spalle, di fronte a un tavolo. Per un attimo pensai che fosse viva. Ma, appena avanzai, vidi che aveva il ventre squarciato da un colpo di baionetta. Era una donna incinta e sul tavolo giaceva il frutto del suo grembo. Avevano tirato un colpo d’arma da fuoco anche in testa a quel povero bimbo non ancora nato».

Ogni volta che penso a quello che è successo a Sant’Anna non penso al film, non penso alle montagne, alla Versilia… Penso a quella immagine della donna con il ventre squarciato. Mi pongo delle domande, mi do delle risposte. Nessuna è giusta.

Mi sento solo una merda appartenendo allo stesso genere umano.

Per voi che non conoscete Sándor Márai.

C’è un bel libro che dovreste leggere su un autore, qualora lo conosciate, oppure potreste recuperarlo ché si chiama Sándor Márai, “BUDAPEST. I LUOGHI DI SÁNDOR MÁRAI” di André Reszler, dovrò premettere qualche considerazione storica.

Márai nacque l’11 aprile 1900 a Kassa (l’attuale Košice, in ungherese Kassa, in tedesco Kaschau, in latino Cassovia) nell’impero austro-ungarico (la città oggi fa parte della Slovacchia). Nacque all’epoca del kaiser Francesco Giuseppe, quando l’impero asburgico era ancora un «mondo ampio, gaio e fiducioso».

Márai crebbe come il ribelle di una rispettabile famiglia del patriziato sassone: adolescente, dopo una fuga, fu “internato” al Rákoczianum, il prestigioso ginnasio cattolico di Budapest. «Emigra dalla sua famiglia, da tutte le famiglie» e vive, da allora, «tra un treno e l’altro, tra una scappata e l’altra, tra due diverse “fughe”». L’11 novembre 1918 si dissolve la monarchia asburgica; l’ultimo imperatore Carlo è pietosamente obnubilato (anche se tenterà di conservare il regno d’Ungheria, invano). Vienna, all’indomani della Grande Guerra, decade; Budapest, invece, diventa, “la perla del Danubio”. Il romanticissimo scrittore Guy de Pourtalès annotò nel suo journal nel 1935: «Città grandiosa nel gotico moderno – pulita – movimentata – popolo strano, mongolo, caduto dalla luna e dalle steppe».

Budapest visse negli anni del primo dopo guerra una sorta di effimera Belle Époque. Márai trascorrerà nella capitale magiara la «prima metà» della sua vita di scrittore: tra il 1928 e la partenza per l’esilio nel 1948.

Nello splendido libro di André Reszler, Budapest. I luoghi di Sándor Márai, ci racconta la vita di un dandy felice. Per chi non conosce ancora Reszler, il grande storico di Budapest, questo saggio è una magnifica occasione per rimediare. Aggiungo che il volume è impreziosito da una gustosissima presentazione di Gianni Contessi.

Mi piace ricordare il malinconico Márai, pronto al suicidio (nel 1989 smetterà di sognare a San Diego), ritornare al suo stile dandy d’antan: «Come vivevo, in fondo?» si domandava Márai nell’estate del 1944, mentre la fine di un’epoca sembrava fluttuare nell’aria. Così, nel Diario, ricostruisce la giornata di uno scrittore di successo, quale era…

«Si fa svegliare alle sette dalla cameriera che appoggia discretamente un bicchiere di succo d’arancia, misto a limone, e i giornali del mattino su un tavolino a portata di mano; dopo aver bevuto la pozione vitaminica, scorre i quotidiani, poi, fino alle nove, riprende la lettura del libro che aveva interrotto la sera prima. Segue la colazione, anch’essa consumata a letto (tè, burro, un uovo à la coque, miele). Si alza alle dieci e lavora fino alle undici. Dopo di che parte al volante della sua automobile, che l’incaricato del garage ha posteggiato davanti all’ingresso dell’edificio, diretto all’Isola dove gioca a tennis, nuota e si affida alla mani di un massaggiatore. Sulla via del ritorno, si ferma brevemente davanti ad un caffè dove beve un buon espresso. Consuma un pasto leggeri a casa, fa una piccola siesta e riprende il suo lavoro fino alle cinque. A quell’ora si fa condurre a Hüvösvölgy o al Monte degli Svevi da dove scende a piedi fino a Krisztina e si cambia per ricevere gli invitati o per recarsi a una cena in città. Di ritorno a casa verso mezzanotte al più tardi, trascorre un’ora dedicandosi alla lettura a letto. Prima di addormentarsi, stabilisce che la cena è stata cattiva e la conversazione insipida, che il livello della vita letteraria si è ulteriormente abbassato e che la vita è divenuta insopportabile. Probabilmente è il tran tran abituale della vita».

Ché la penna è una cosa ungherese.

Quella che noi comunemente si pensa sia una marca a caso non è niente altro che un cognome. Biro è per noi la metonimia della penna a sfera per scrivere e difatti dietro questa piccola rivoluzionaria cosa c’è un nativo ungherese: László Bíró (Budapest, 1899 – Buenos Aires, 1985) lo storico inventore della penna a sfera.

Iniziati gli studi di medicina, li abbandonò presto per dedicarsi al giornalismo. Questa cosa naturalmente mi crea sentimenti di empatia. Vabbè. E proprio durante la sua carriera giornalistica, alla fine degli anni ’30, cominciò a sperimentare soluzioni per risolvere il problema delle macchie che le penne stilografiche lasciavano sui fogli: Bíró provò a sostituire il tipo di inchiostro che si usava per scrivere con quello utilizzato per la stampa dei giornali. Il nuovo liquido era però viscoso e rendeva poco fluida la scrittura, così gli venne l’idea di inserire, all’interno della punta, una piccola pallina metallica che permetteva la distribuzione omogenea dell’inchiostro.

La biro necessitò di molti perfezionamenti e di un grosso investimento finanziario. Le sperimentazioni furono però interrotte per il precipitare degli eventi storici: durante la Seconda guerra mondiale, infatti, Bíró, assieme alla famiglia, si trasferì prima a Parigi e poi in Argentina.
A Buenos Aires iniziò la produzione della sua penna, nell’azienda di nome Eterpen. Nel 1943 la brevettò, ma i costi di produzione erano troppo elevati e ben presto Bíró fu costretto a vendere il brevetto al barone italiano naturalizzato francese, Marcel Bich. La penna a sfera fu da allora associata al nome di Bich e divenne la fonte delle sue grandi ricchezze, mentre Bíró morì povero a Buenos Aires il 24 novembre 1985.

Porello.

Questo non ve l'ho pubblicato a Pasqua perché già avevo in mentre quello di Pasquetta.

Niente: a me la Pasqua, non so perché, mi spinge all’indagine religiosa. Soprattutto dopo la ficcante analisi che mi ha fulminato e permesso (eh?) di smascherare l’inutilità della Pasquetta. Così, fuori stagione come le colombe avanzate ma vendute al ribasso, ho deciso anche di fare luce su un tema altrettanto scottante, che i media ignorano forse per paura di ritorsioni. Sì, perché, mentre la stragrande maggioranza delle feste cattoliche verte sulla figura di Cristo o della Madonna, si viene a scoprire che gli italiani riservano la loro devozione a delle figure più di nicchia, a personaggi che si tengono lontani dai riflettori della ribalta e che finiscono per essere i veri punti di riferimento del credente: i santi patroni. A fine 2007, viene pubblicato questo sondaggio che svela come “il 70% dei credenti invoca l’aiuto di un santo. Di questi, il 31% si è rivolto a Padre Pio, il 25% a Sant’Antonio, il 9% alla Madonna. Seguono col 7% San Francesco, col 4% Santa Rita e San Giuseppe, col 2% Gesù, con l’1% San Gennaro, San Rocco, Madre Teresa di Calcutta, Sant’Agata e San Gerardo”.

Be’, spunti di discussione ce ne sono a secchiate. Primo fra tutti: solo il 2% invoca Gesù. Su due piedi sembrerebbe un grosso gesto di ingratitudine da parte del fedele. A voler essere buoni vi si potrebbe leggere una forma di rispetto puro, della serie “è già così incasinato che non è il caso che mi ci metta pure io con le mie richieste”. Ma, a voler fare i maliziosi, si potrebbe pure pensare che “Gesù c’ha già le richieste di mezzo mondo, magari se mi rivolgo a un santo che non si fila nessuno è meglio”. Tipo le ragazze che al concerto dei Duran Duran andavano con gli striscioni per Andy Taylor, credendo di avere più possibilità di sposarlo di quella folla di cretine che si scannavano per Simon Le Bon e Nick Rhodes. Altra considerazione: Gesù viene superato dal padre, cui, a parte la storia del Presepe, nella Bibbia viene riservato un ruolo marginale. Prima o poi Quentin Tarantino gli dedicherà uno spin off per dare la giusta dignità alla sua figura. Così come stupisce che San Gennaro, autentico mito, abbia le stesse invocazioni di San Rocco e San Gerardo, bravi ma meno appariscenti. Nessuna di queste considerazioni, però, è inerente alla nostra analisi. Il dato che ci interessa, infatti, è capire quante di queste invocazioni arrivino – come dire – per stima personale e professionale e quante, invece, per il ruolo di patrono rivestito dal santo in questione. Incrociamo i dati:

“i patroni di grandi città come San Marco per Venezia, Sant’Ambrogio per Milano e San Gennaro per Napoli, sono invocati mediamente dall’80%” dei credenti di quelle zone, “con una punta del 96% nel caso del protettore dei partenopei”. Il che, in primo luogo, lascia perplessi sull’1% portato a casa da San Gennaro su scala nazionale e, in seconda battuta, fa capire che quello del santo patrono è un ruolo scomodo, se vogliamo, ma gratificante. E veniamo così alla domanda fondamentale: come vengono gestiti i santi patroni?

Chi li sceglie? Che poteri hanno? Hanno un co.co.pro. o un contratto a tempo indeterminato? Cerchiamo di capire:

“Fino al Decretum super electione sanctorum in patronos di papa Urbano VIII (23 marzo 1630) la scelta dei santi patroni dei luoghi era operata indistintamente dalla Chiesa e dalle istituzioni civili, talvolta eleggendosi al patronato finanche i santi non canonizzati. Col decreto il pontefice pose fine agli arbitri fino ad allora perpetrati ed impose regole severe per l’elezione dei santi tutori, rendendo obbligatoria l’approvazione pontificia e imponendo un iter che prevedeva il voto ufficiale dell’ordinario diocesano, del clero secolare, di quello regolare e della popolazione del luogo interessato dal patrocinio, per poi trasmettersi l’incartamento alla Congregazione dei Riti per una meticolosa analisi dello stesso”. (fonte: Wikipedia)

Poi Paolo VI cambiò un po’ le regole, ma fece salvo il principio fondamentale: la scelta spetta al popolo. Ora, questa cosa qui può essere vista anche come una forma di democrazia. In realtà è un grande bluff perché costringe i credenti a prendersi il primo santo patrono proposto. Mi spiego: se io mi rivolgo a un santo per una grazia, probabilmente faccio anche di tutto per rigare dritto e non farlo incazzare. Mi spiego. Metti che si fa questa votazione per avere San Valentino patrono di Frosinone. Io, credente ciociaro, sono contrario alla designazione, ma in giro sento che l’opinione pubblica è favorevole. Che faccio? Metti che voto contro e poi questo diventa patrono… Poi con i santi manco puoi dire che il voto è segreto. Quindi o corri il rischio di avere un santo patrono che non accoglierà mai le tue richieste o fai buon viso a cattivo gioco e fingi che non avresti mai potuto nemmeno immaginare un patrono differente.

Allo stesso modo, che si fa quando un santo patrono non svolge al meglio il proprio ruolo? Visto che l’ultima parola spetta alla gente, si potrebbe ipotizzare una raccolta firme per la candidatura di un nuovo patrono. E poi chi ha le palle di andare a consegnare al Vaticano la richiesta di una nuova consultazione? Senza considerare che, se per un motivo qualsiasi il referendum fallisce, chi se lo tiene un patrono che ormai ha preso atto della distanza del suo elettorato?

Ragion per cui, il santo patrono sembra essere una figura abbastanza specifica e duratura nel tempo, per non dire immutabile. Va detto, però, che sulla specificità i credenti hanno abusato di una falla normativa. Perché, diciamolo, i comuni del mondo sono miliardi e i santi molti di meno. Per cui finisce che il santo che reputi migliore se l’è già preso qualche altra città. Ora: se San Giacomo veglia tanto su Santiago del Cile quanto su Santiago de Compostela non c’è problema, visti i chilometri che separano le due realtà. Ma se a Foggia volessero San Nicola patrono, Bari farebbe barricate. Nel senso: nella piccola Italia è difficile scegliere un santo che sia già di un’altra città. Ecco allora l’escamotage. Emblematico il caso della Madonna. Difficile dire chi l’abbia scelta per primo, fatto sta che tutti gli altri, pur di averla come patrono, ne hanno declinato l’iconografia nei modi più vari: Addolorata, del Carmine, dell’Assunta, del Rosario, degli Angeli, del Carmelo, Immacolata, dei Sette veli, della Visitazione, del Fuoco e così via. Di fatto a ogni singolo aspetto della Vergine è stata riconosciuta una specificità. Per fare un esempio più terreno: Barbie rock star e Barbie istruttrice di aerobica sono la stessa persona ma vengono vendute come se fossero due personaggi diversi. Per cui non è improbabile che Monza possa scegliere come patrono Sant’Ambrogio della Bandiera a scacchi o che Siena possa ambire a San Giovanni di Cinta senese.

In conclusione: la metafora politica sembra calzante. Stesse facce nel lungo periodo e piccoli escamotage per rilanciare volti noti. Senza contare che, dove c’è troppa gente a decidere, si fa sempre il caos: L’Aquila ha quattro santi patroni (San Massimo, Sant’Equizio, San Pietro Celestino, San Bernardino da Siena). E non faccio battute sulla sfiga avuta lì e il conseguente numero di patroni. Grazie.

Le Stolpersteine o pietre di inciampo.

Vienna Ne avevamo parlato ormai due anni fa: dalla metà degli anni ’90 lo scultore Gunter Demnig ha iniziato a disseminare le città tedesche con i suoi Stolpersteine (letteralmente “ostacoli”, “impacci”)

Ora sono state aggiunte 72 nuove pietre in una terza edizione di “Memorie di Inciampo”, quindi si raggiungerà un totale di 150 pietre.  Il numero delle pietre in Europa, in 10 Paesi europei, ha raggiunto quota 33 mila. E’ un progetto che forse – purtroppo – non si esaurirà mai perché è impensabile puntare a collocare 10 milioni di pietre. Quelle pietre sono un po’ contro tutti quelli che fanno revisionismo, tutti quelli che fanno negazionismo, come ad esempio pare che succeda in Danimarca. Queste pietre servono, nell’idea, a riportare a casa persone ridotte ad un semplice numero, a cui è stata tolta ogni dignità di persona”.

(le pietre della foto sono a Vienna in Mariahilferstrasse)

Olocausti e oblazioni.

Del resto mi hanno appena detto “tu sei troppo colta“. Quindi Albertoangeliamo assieme.
The gravestone of Giovanni Defugger who died 1114, the man who created Est!Est!Est! wine.Se in casa qui abbiamo da un lato gente che mi fa altarini e dall’altra parte il pupazzo che spesso si proclama come Beato Rodesindro da casasua (del resto, daje torto) direi che possiamo essere benissimo ferrati su argomenti che tangono la blasfemia. Del resto, oh, non è colpa nostra se antropologicamente alcune cose osservabili nei riti religiosi e nei templi religiosi creano ilarità e noi si va a sottolinearlo.

La cosa bellissima è che nel mentre si diceva e si pensava tutto questo ho pensato: ok, quando decedo io fatemi delle irrigazioni tombali con della birra, altro che i fiori a memoria. La birra. Il senso pratico: manco da viva li voglio i fiori, figurati dopo. La birra costa anche meno. E poi ho pensato che l’idea non è che fosse originale, ma cambiava il liquido. E mo’ vi spiego da cosa deriva.

[occhio, parto con una cosa che conosco benissimo e quindi VE LE SFRANGIO] Continue reading “Olocausti e oblazioni.”

Però venite a sapere anche che nella vita ha avuto 4 o 5 barboncini.

Mostra su Renata Tebaldi, Parma
Mostra itinerante, che ha già fatto il giro di alcune città e che ora starà per un po' al Palazzo del Governatore di Parma, quella su Renata Tebaldi. Inaugurata venerdì sera alle 19.30.
Personalmente la mostra non è imperdibile: ciò che può e deve essere un grande feticcio della Tebaldi è la sua voce. Gran dispiego di abiti di scena (alcuni disegnati da De Chirico, Dior, Valentino), qualche gioiello di bigiotteria sempre legato alle scene, quinte in scala, i bauli e il trucco, l'orsetto portafortuna e i cappellini. Chi non conosce il suo talento non lo scoprirà dalla mostra, chi lo conosceva già non gli cambia granché, tolto il compiacimento di apprezzare una diva, sebbene poi non fosse così affetta da divismo (quindi anche le lamentazioni degli agée presenti che dicevano "vedi? non ci sono giovani, non c'è ricambio generazionale" è una boutade, dacché io da persona giovane appassionata o che si vuole appassionare d'opera una mostra del genere mi può interessare davvero poco)

Teatralissima, una donna dalla 46 di forme e una buona altezza, che si andò ad assottigliare col tempo: Renata Tebaldi possedeva uno strumento da soprano lirico spinto, che con un accurato studio, sebbene rimanesse sempre più portata a canti tragici (infatti ben si sposerà al repertorio tardoverdiano e pucciniano) che al canto agile riusciva a mantenere una perfetta omogeneità fra i registri passando da sussurrati a voce piena con assoluta maestria, sebbene fosse più portata al fraseggio e meno agli acuti.

Bello magari il telegramma con cui si congratulava con la Callas: messo nell'ultima stanzetta claustrofobica dove ci arrivate se vi guidano col senso della visita, leggermente contorto. Sebbene non si sappia del cartaceo (non essendoci cartelli esplicativi) per bene data e occasione. Storicamente: il dualismo con Maria Callas c'era, ma non della grandezza montata dai media: entrambe soprano, ma diverse. Una con voce e cantato tradizionale, l'altra fortemente moderna. La Tebaldi commuoveva, la Callas trascinava, la Tebaldi era incanto, la Callas era stupore, nè per l’una nè per l’altra c’erano limiti all’entusiasmo suscitato. Le voci erano differenti: suadente l’una, aggressiva l’altra, ma entrambe quando la scrittura musicale lo richiedeva sapevano piegare la dote naturale alla esigenza dello spartito.
Come disse lo stesso musicologo Celletti: "…la Tebaldi è stata la cantante che ha trasferito nella seconda metà del Novecento un modo di eseguire il repertorio lirico maturato nel cinquantennio precedente. Anche in certi vezzi (l'abbandono che porta a rallentare i tempi, l'indugio voluttuoso su note di dolcezza paradisiaca), costei è parsa, fra i soprani odierni, lo specchio di una tradizione che si è probabilmente esaurita con lei, così come, fra i tenori, si è esaurita con Beniamino Gigli". 

[poi magari se siete cultori vi lascio due bei link: l'ultima intervista alla Tebaldi fatta da Paolo Limiti, parte uno due, tre e quattro]

Sono Adso, ho lasciato il libro sul tavolo davanti alla frutta.

Melk

Qualora voi siate forti lettori di libri alti più di quanto la gamba del tavolo non vi traballi dovete sapere che l'abbazia in cui ci si rifà ne "Il Nome de La Rosa" non ce piglia nulla con la realtà. O perlomeno la primaabbazia costruita circa nell'anno 1000 è andata in parte distrutta in un incendio ed è stata ricostruita fra il 1700 e il 1750. Quindi vi trovate davanti a una cosa abbastanza enorme ristrutturata di recente con quel non perfetto buon gusto in cui l'Unesco non ci mette molto i puntini sugli i (ok, piano a ritinteggiare, diobono: sembra una di quelle rinfrescate ai palazzi che fanno a Parma dove dipingono di rosso magenta i mattoni dei palazzi del centro) di chiaro gusto baroccheggiante, con bastioni ed ornato da statue di santi, dal quale si accede agli ambienti interni. Balconate, obelischi, sculture, stucchi e fontane danno luogo a un autentico manifesto del barocco, stile che con la sua opulenza continua negli appartamenti imperiali, oggi adibiti a museo insieme alla lunga galleria.

La Stift di Melk è tutto sommato bella, ma non rispecchia quella abbazia che nel XII secolo ricopiò numerosi e importanti scritti tramandandoli nei secoli. Resta una però delle cose più fighe da vedere nella valle della Wachau, E forse lo sanno un po' tutti gli italiani, visto che bestemmianti, sciamanti, e cicloamatori si inerpicavano su per la collina. Per dire: parlate a voce bassa, se andate. Non si sa mai.