ph. Francesca Fiorini / 30 seconds to Mars
In sala stampa si inizia chiedendoci (tra quelli che parlano anche inglese e che quindi sono meno germanici) cosa sia successo al cantante e fondatore degli Ou est le swimming pool.
NME, noto magazine musicale inglese di riferimento, ha dato la notizia come suicidio dopo la sua esibizione al Pukkelpop, un festival Belga. Qui oggi non verranno rimpiazzati sul Green Stage, ma ci sarà il buco e quindi forse pienone per Norbert Scnheider, ragazzone austriaco idolo locale dai tratti spigolosi e la voce vellutata, sul main stage (già litigatissimo in sala stampa, con tutte le web tv che gli hanno richiesto sessioni acustiche da far sentire ai loro ascoltatori).
Beh, come avete capito il terzo giorno va a focalizzarsi di più, anche se non in modo monotematico, sulla musica di casa loro. Perlomeno quella tedesca, di lingua tedesca. Almeno se vogliamo pensarla così, visto che possiamo pensare che i tre headliner possono aver dato un certo corso alla giornata.
Oggi a causa di caldo africano al di là delle Alpi e conclamata stanchezza preferisco fare un po’ una scelta ragionata dei gruppi da vedere con un bicchiere in mano e la macchina fotografica dall’altra parte. Sì, niente bottigliette, bottiglie o lattine: c’è un accordo per preservare l’ambiente e tentare di ridurre i rifiuti e il lancio di cose che possano far male. Anche se devo dire che rispetto al pubblico italiano quello austriaco è meno noioso: ogni volta che vado a dei concerti in Italia c’è qualcuno che sempre ama fare deboscio in nome di “è un concerto! devo divertirmi”.
Qui se si poga ci si organizza a zone, e si va a pogare con i poganti. Se si salta, si salta. Si applaude, si fa casino. Se qualcuno sta poco bene si mette da un lato. C’è rispetto di se stessi e degli altri, ma credo sia una cosa culturale. Però capitemi, sono molto contenta che su tre giorni non ho avuto neppure mezza gomitata al mio apparato mammario, cosa che invece avviene 6-7 volte nella prima mezz’ora in un qualsiasi concerto italiano.
Il primo gruppo che riesco ad ascoltare per bene e non solo superficialmente nella giornata e che ho conosciuto l’anno scorso perché la mia seconda veduta religiosa-musicale, ossia il cantante degli Ours Jimmy Gnecco, ha fatto loro da supporter nel loro tour americano.
I Blue October stanno trovando un buon filone di fan tra i paesi di lingua germanica, forse perché è un rock molto affine ai gusti della popolazione: un alternative rock con l’aggiunta di violino, viola, mandolino, pianoforte classico nelle musiche e una voce rude e potente al canto. Non sono belli, non sono fighi, non se la tirano, sono molto alla mano e umili. Forse è questo il problema che non li ha portati alla prepotente ribalta dopo 7 album pubblicati negli USA. Maledette regole dello showbiz. Però vi consiglio di cercare e ascoltare la loro “Say it”, ché nei momenti di incazzatura almeno a me scarica alquanto.
Poi gli Archive. Li ho intervistati prima, e mi è capitata una deliziosa Maria Q, la voce femminile del gruppo, era veramente deliziata dal fatto che fossi italiana e mi ha fatto i complimenti per il mio nome di battesimo. Lei ha la mamma calabrese e il papà di Palermo. Allora c’è stato quel teatrino -vi giuro, non volevo- ma in lingua albionica di “oh, adoro questo, quello, ho amici a Palermo, ma l’Italia le cose etc etc”.
Poi mi sono ripresa e ho chiesto al fondatore come mai nella patria dell’apprezzamento dei generi di musica più disparati loro non sono così tanto profeti in Patria. Perché gli Archive sono apprezzatissimi dopo 13 anni di carriera in tutta Europa, tranne che proprio nel loro paese. E non ce lo spieghiamo, né io né loro. Sul palco sono così trascinanti ed emozionanti che ti portano dentro le loro melodie senza farti agitare.
È un pogo da scrivania, diciamo. Se già il primo giorno una ragazza, vedendo il braccialetto diverso (già perché ai festival c’è tutto il sistema dei colori ai braccialetti per passare nelle varie aree: verde per la crew tecnica, giallo al backstage, oro la stampa, rosso gli addetti al ristoro… ) si è messa a spiegarmi senza che le chiedessi nulla tutte le sue varie esperienze di veterana del festival mostrandomi i braccialetti degli anni precedenti saldamente tenuti al polso, oggi anche il tizio austriaco della Warner mi spiega un po’ tutta la storia del Frequency mentre aspettiamo, e dice che sebbene Sankt Polten non sia poi così una fantastica location rispetto al Salzburgring, il luogo dove si tenevano edizioni più vecchie, qui c’è molto vento e quindi il tempo è migliore. Io parlo e cerco di affossare la tensione, ché mi tremano le mani perché sto aspettando con lui nel backstage il mio turno per intervistare Melissa Auf der Maur. Fingo di essere entusiasta per la mancanza di rumori nel posto e parliamo del più e del meno, e cerco di trattenere l’emozione.
Non ce la faccio e appena hanno finito le radio e tv nazionali e tocca a me dico a Melissa che da anni lei è uno dei miei idoli, anche e soprattutto perché è una bassista donna. E poi perché esile, con i boccoli e i capelli rossi, così signorile e una degna dell’appellativo di artista visto che è una eccellente fotografa, una buona cineasta e un’abile musicista. E le dico che la prima volta che la vidi, nel video di Celebrity Skin delle Hole pensai “ma chi è quella ragazza meravigliosa vicino a Courtney Love?”. Lei si mette a ridere, mi ringrazia, mi parla delle sue difficoltà con le major e di tutta la sua vita artistica. Sembra di parlare con una vecchia amica, e insiste affinché io torni a vederla ogni volta nelle date italiane avvertendo la sua etichetta per rivederci. Io mi sento felice come una bimbetta. Poi vado a vederla sul palco, grintosa come sempre. Sai quei momenti in cui tu pensi di aver speso due ore della tua vita in modo perfetto? Ecco.
Poi le due ore finiscono, e dal Green Stage e la performance di Auf der Maur mi risposto al Race Stage. Se facessi marketing o simili ci farei sicuramente una tesi. Però faccio medicina e potrei farla solo relandola a psichiatria, e mi sembra esagerato francamente: il rapporto dei 30 seconds to Mars con il pubblico. Un passo indietro: visto da vicino Jared Leto è davvero un uomo da un volto splendido. Un po’ basso. Se la tira da attore di Hollywood. Non so, posso dire quindi che se la tira per quanto è bell’uomo, visto che il suo ingresso ha mandato in tilt la press area, in cui però il suo entourage aveva fatto entrare anche un tot di fan per l’incontro con la band (ho letto che – pagando – infatti esistono questi loro pacchetti di “saluta e abbracciati la band”) e quindi c’era più casino del dovuto. Alla fine però tutto si è risolto quasi brevemente e il cantante/attore se ne è andato con un giacchino istricioso regalato dalle sue fan, cappuccio in testa e occhiali da saldatore sul volto. Non ve l’ho più immortalato, perché in quel momento poteva essere anche non so, Pippo Baudo.
Poi posso dire che sul disco le canzoni della band mi piacciono. Mi piacerebbe però riascoltarle dal vivo non inserite in uno spettacolo che porta in secondo piano la musica. Perché quello che Leto e compagni mettono sul palco è uno show, con Jared che incita la folla secondo uno schema “urla, salta, canta” e da comandi per partecipare a uno show collettivo. Sapete tipo quei culti protestanti americani? Ecco. Mi son trovata in mezzo con tutta la gente che mi diceva di inginocchiarmi all’inizio della canzone per poi saltare alla fine perché l’aveva detto lui. Capisco bene, è trasporto, amore verso la band. Però io in questo modo non sentendo cantare non ho capito se sono o meno bravi sul palco, c’è da dire che hanno un carisma assurdo che fa pronta presa sulle persone.
I Billy Talent ripuliscono un po’ le mie orecchie e riportano un po’ i miei gusti nelle note in aria. Ossia, non che io sia punkettara, ma visto che avevo cenato, visto che avevo finito le mie interviste, visto che avevo finito la captatio bimbettae non dovendo più fotografare cantanti amati sulla internet sono andata a saltare come una molla in mezzo alla gente. Tantissima. Finiscono i Die Toten Hosen ed è subito sagra paesana. Aprono con Kalinka e poi via a tutti i loro successi, prese in giro e autoironia a pacchi. Del resto, “toten hosen” in tedesco significa noiosi. Loro sono tra i tre gruppi di lingua germanica che sono riusciti a farsi conoscere all’estero cantando in lingua natia, gli altri sono i Die Ärzte -che erano al Frequency 2009 – e i Rammstein.
E con loro, sebbene si continui poi a ballare al Nightpark fino all’alba, si conclude il decennale del Frequency Festival. Un’edizione molto buona sebbene la line-up non fosse stellare come in altre edizioni precedenti, che ha portato a oltre 115000 abbonamenti e 150000 presenze medie sui tre giorni. Ci rivediamo l’anno prossimo: le date sono già fissate, 18-19-20 Agosto.
Auf wiedersehen.
Scritto da frannina
il 27/08/2010