Ho la fortuna di aver ascoltato da diverso tempo (saranno due settimane abbondanti? non ricordo) il nuovo album dei Mumfords, Babel.
Io per i Muse non sono obiettiva, ma credo che quello dei Mumford and Sons sia album dell’anno. Terzo posto poi per quello dei Soulsavers. Così non mi chiedete altro sino a capodanno.
Avevamo il via libera alle recensioni da oggi 20 settembre, ossia una settimana prima dell’uscita del disco. Avevo pensato: oh, mi metto a fare un track to track a modo, ché nessuno lo ha ancora ascoltato. Poi esce il leak e penso: boh, che lo faccio a fare? Quindi prendiamo un altro approccio via. Ho cercato, nella pausa post entusiasmo (entusiasmo? piangevo come un vitello da latte, maiala cane) di capire come siano visti i regazzini dagli altri: in realtà molti di quelli che amano il folk non ne subiscono il fascino, e viceversa chi schifa il genere li trova noiosi. E quindi dove peschiamo quelli che li ascoltano? E’ strano. I Mumford and Sons sono un gruppo trasversale che accoglie persone che non ti aspetti.
Quindi cosa vi si può dire? Che questo è un grande album, quello in cui il gruppo inizia a fare un genere proprio che si distanzia dal folkettone di base: è un album che inizia mettendola giù dura, rallenta per metà, e si riprende nel finale. C’è questa impressione come se loro avessero lì la voglia di fare qualcosa di epico, di dire che nessuno si stia sbagliando a seguirli. Si sente proprio che c’è questa voglia di fare le cose in grosso, al secondo album. Sono dei bimbi ma hanno fatto un album che ha una maturità degna di band più di lungo corso. Ci sono tanti accorgimenti musicali compositivi che però lo fanno suonare come un album fresco ed emozionale. E’ bello, credo, proprio questo: in un’epoca di hipster, fighetti, pogatorifolli c’è questa gente che ti fa ‘ste canzoni strazianti di bellezza che ti trascinano lì e ti inchiodano a terra e ti fanno capire che c’è del bello anche nella merda dei sentimenti contrastanti.
Capisco, dall’altro canto, che il mio giudizio sui Mumford and Sons è viziato dall’averli seguiti crescere. Credo che noi trecento o cosa fossimo lì al Covo per la prima tappa italiana non riusciremo a staccarci facilmente dalla band. Probabilmente perché sentire live la prima volta Little Lion Man con il pavimento che oscilla sotto di te è qualcosa di particolare. Poi rimanere a bocca aperta quando ti suonano non amplificati a 3 metri lì al teatro Romano di Verona (probabilmente era molto che non provavo un’emozione così autentica a un concerto) non è una cosa che ti accade sempre. Quindi non so: prendetemi con le pinze. Ma fossi in voi un ascolto lo darei.
L’album esce in settimana. Se volete farvi un’idea c’è il file sharing. Ma dopo prendetevi il disco fisico.
A-A, mi dispiace, ma (secondo me) l’album dell’anno l’hanno partorito i Calexico. Scusa, ma una roba come Para i Mumford non riescono nemmeno a sogniarsela.
Soulsavers sorprendenti. Dave Gahan sta imparando. Decisamente si.